LONDON- Immaginate di essere alle Hawaii: sole, 35 gradi, mare cristallino, bbq e cocktail tropicale sulla spiaggia durante tramonti mozzafiato, collane di fiori, surfisti/e, milfs in forma talmente smagliante che finalmente riuscite a trovare una spiegazione logica alla lezioni di aerobica di Jane Fonda che vostra madre collezionava a fine anni '80. Anything else? Non penso proprio. Se passare un mese alle Hawaii non ha bisogno di alcun commento, altrettanto immaginabile è il rientro nella grigia, freddolosa e piovosa London. Scombussolato dal jet-lag e da quasi 2 giorni di viaggio, Giacomo, my italian team-mate, al rientro nella capitale inglese lo scorso sabato, avrà pensato di essere ancora addormentato, con il peggiore degli incubi che stava ancora disturbando il suo sonno intercontinentale. Niente più costumi, ma cappotti e papaline. Non più collane floreali ma sciarpe di lana. L'acqua azzurra e la sabbia fine erano stati spazzati via dal cemento e dalla metropolitana, mentre i mojto o i sex-on-the beach venivano rimpiazzati da fusti di birra. E delle americane in bikini nessuna traccia.... Purtroppo per lui, quello che si stava materializzando ai suoi occhi non era un incubo. That's reality. Premesso tutto questo, è normale che alle 10 di domenica mattina mi sento quasi in colpa nel chiamarlo (e svegliarlo) per andare a giocare. Qualsiasi persona con un briciolo di buon senso non mi avrebbe risposto al telefono. E se qualcuno, per sbaglio, lo avesse fatto, mi avrebbe mandato a cagare all'istante tornando a letto. Invece no. "Fra un quarto d'ora? Ok!". Parole poche, ma buone. L'idea di rimanere al calduccio di casa, senza cercare troppe rogne, non ci passa per la testa minimamente.
Alle 11 i ragazzi sono già a Regent's Park. Jamie lo scozzese del gruppo sta palleggiando con Dani, brasiliano, che dopo tre anni di permanenza a London sembra essersi adattato perfettamente al clima britannico, tant'è che si presenta con calzoni corti e maglietta a mezze maniche, manco fossimo a Ipanema. Il campo è congelato ma il timido sole di tarda mattinata che batte proprio sulla nostra fetta di parco promette bene. Almeno non c'è troppo fango. Arrivano anche i cileni. Stavolta sono facce nuove, mai viste. Arriva Cesar, il talentuoso colombiano che ci racconta di aver giocato contro Fredy Guarin nelle giovanili. Poi è il turno di Tom, ancora incazzato per la sconfitta dell'Arsenal, e Nico, contento invece per il successo del suo Monaco e del contemporaneo pareggio dei rivali del Nantes in Ligue 2. Ancora scosso dal fuso orario e dalla scenario quasi apocalittico, Giacomo nasconde dentro la tuta del UPD Tuoro tutti i brividi derivati dal passaggio dai 35° di Kawela Bay ai 3° di North London. Ma l'inizio di gara è per lui positivo: da buon milanista emula subito il "faraone" El-Shaarawy, siglando una doppietta che ci porta sul 2-1. La partita scivola via poi equilibratamente: la nostra squadra è leggermente superiore ma quando andiamo in vantaggio di uno o più gol tendiamo a cullarci sugli allori e qualche regalo difensivo di troppo (mea culpa) permette agli altri di raggiungerci. Ancora una volta finiamo al golden-gol dove abbiamo la meglio. Ma queste partite non è importante vincerle. Quello che conta di più è giocarle. @JuriGobbini Esempio tipico di partita domenicale:
LONDON-"Sole, whisky, e sei in pole-position" recitava il Cumenda , intento a godersi il sole sulle nevi di Cortina d'Ampezzo. Ok, non c'è la neve (ci mancherebbe anche, visto che siamo a Novembre), ed il whisky è rimasto sul bancone del pub (ad essere onesti qualche traccia è ancora presente nell'organismo, dopo il pub crawl di sabato sera...). Per il resto la giornata è perfetta: cielo senza nuvole, foglie cadute che colorano di arancione i prati sempreverdi. Il pallone viene di conseguenza. D'altronde abbiamo giocato sotto scroscianti acquazzoni, non farlo oggi sarebbe un peccato. Arrivo puntale alle 11 a Regents Park. Dani, brasiliano di Sao Paolo, è già lì che sta palleggiando. Gli altri arrivano alla spicciolata. Fra un passaggio e l'altro, durante il riscaldamento parliamo di calcio sudamericano, della crisi del Colo-Colo, del Corinthians, delle pazzie di Edmundo, dei programmi ambiziosi del Monaco, del reale valore di Ranieri come allenatore, fino ai gol di Ibrahima Toure, che il francese Nico spera che sia il nuovo George Weah (sarà?). Intanto i cileni oggi sono in larga rappresentanza. Viene così naturale mettere in piedi un Chile vs Resto del Mondo. 5 vs 5 che poi diventa 6 vs 6 visto che arriva a darci manforte Tom, tifoso dell'Arsenal che per un problema alla vista gioca con gli occhiali alla Edgar Davids, mentre dall'altra parte la compagine sudamericana viene riforzata da Abdullah, un arabo che indossa la maglietta del Real Madrid. I cileni, come previsto, partono forte, portandosi sul 4-1 dopo poco. Il solito Marcelo mette in mostra il suo repertorio di finte e controfinte, nonostante il campo piuttosto allentato. Non potendo contare sull'estro del colombiano Cesar, assente ingiustificato per la seconda domenica consecutiva, fatichiamo più del previsto a recuperare, ma alla distanza riusciamo a colmare il gap. All'una in punto siamo 10 pari. Golden Goal? Ok. Vince chi segna per primo. I cileni attaccano. Un paio di rimpalli maledetti mettono Abdullah nelle condizioni di tirare, a pochi metri dalla porta. E' gol quasi fatto. Vado in scivolata nel tentativo di contrastarlo. Fosse capitata a Marcelo, mi avrebbe lasciato andar giù, fintando il tiro, per poi segnare a porta vuota. L'arabo invece colpisce di prima intenzione, ma io riesco a respingere, seppur con il pugno. Anche se involontario, sarebbe fallo di mano. Handball. Il pallone è sempre lì. Mi rialzo di scatto e rilancio l'azione. Pare che nessuno si sia accorto di nulla. Abdullah sembra dire qualcosa, ma non viene cagato di striscio. I cileni continuano a giocare. Faccio la gatta sorda. Keep going. La palla è adesso dall'altra parte. Nico tocca per Kieran, il quale fa il velo per Tom: stavolta è gol. Per noi. Well done, guys. @JuriGobbini
LONDON-Facile andare a giocare a pallone quando è caldo, c'è il sole ed i prati inglesi sono perfetti e siete circondati da sgargianti fanciulle che gironzolano nei vari parchi della capitale. Più difficile è farlo in pieno Novembre, dove il campo è una poltiglia, piove a dirotto ed al giro non c'è la benché minima traccia di milfs. GOING or NOT GOING? -Il tintinnio della pioggia sulla finestra scandisce i pigri movimenti post-sveglia. L'apertura della tenda mi svela quello che stavo temendo da ieri: cielo grigio e pioggia. Che volevo pretendere? Siamo a London, ed è Novembre. Qui piove anche ad Agosto, figuriamoci adesso. Avevo appuntamento con Kieran e i suoi amici alle 11, ma titubante sul da farsi sono tentato di inventarmi qualche scusa e dargli buca. Ma lui mi anticipa.
Muddy football boots
LET'S GO- We are going at 12. Same place. Any weather. Il messaggio è chiaro. La pioggia non ferma il calcio. Ok see u then. Replico io. Pronti via: borsa dell'Arsenal, felpa della Ssd Po'Bandino , panni di ricambio e lunch-bag per lo spuntino post-match. C'è tutto. Mancano solo le scarpette. Ho quelle da calcetto, ma usarle significherebbe trovarsi col culo a terra in qualsiasi occasione o rischiare tibia e perone ad ogni contrasto. Via allora da Sports Direct per l'acquisto last-minute. £20 per un paio di Adidas è un prezzo accettabile. Chiedo alla cassiera di togliermele dalla scatola. Lei tutta sorpresa dalla mia richiesta mi dice che poi non le posso riportare indietro per cambiarle. Beh, non credo proprio che anche se avessi la scatola le vorrebbero indietro dopo oggi pomeriggio.
PRIMO MATCH- Arrivo puntuale a mezzogiorno spaccate. A parte qualche dog-walker,Regents Park sembra deserto. L'inverno è alle porte ed non è più tempo per picnic o gite domenicali. Kieran e gli altri tizi si sono aggregati ad un match in corso. Entro pure io. Il livello tecnico non è eccelso. In compenso abbiamo le portine (alte 1 mt), anche se i portieri sono "volanti" e non possono utilizzare le mani. La mia squadra è composta maggiormente da francesi. Dall'altra parte vi sono inglesi più due cileni che fanno intravedere qualcosa del loro repertorio sudamericano. Dopo un paio di tunnel beccati arriva però il momento di rinnovare i tacchetti. Entrata dura e decisa, pallone soffiato e via al contrattacco. Il cileno zoppica leggermente, nel contrasto ho preso anche lui naturalmente. "Perdon hombre. Todo bien?" Chiedo, sincerandomi dell'accaduto. "Si todo bien, amigo." Mi fa lui. La gara è abbastanza squilibrata. La squadra avversaria ci lascia attaccare e poi riparte in contropiede. I francesi hanno poco mordente e scarso senso tattico. Inoltre, portiere "volante" significa che nessuno è in porta, così ogni contrattacco causa un pericolo, perchè rimaniamo 2 vs 2 o addirittura in inferiorità. Basta che trovano uno spiraglio per tirare che è gol assicurato. Mi piazzo dietro, cercando di tappare le falle, ma non basta. Soccombiamo. Fortunatamente, la maggior parte di loro deve andare via. Rimaniamo allora in 5. Così rompiamo le righe ed andiamo a cercare un'altro gruppo.
SECONDO MATCH- Il bello di queste partite è che giochi con un casino di persone differenti. Il brutto è che non mi ricordo mai e poi mai i nomi di loro. "Hi, i'm Jack, how you doing? you right?" "Hi, i'm Mick, nice to meet ya!" "Juri? you from Russia?" Quante volte ho sentito queste frasi. Ma, a meno che non hanno qualche nome o qualche particolarità (tipo Emre un gigante turco che giocava con la maglia dell'Inter o Mario un nigeriano con orecchino e il taglio di capelli alla Balotelli - anche se dubito che si chiami realmente Mario), è impossibile che mi ricordo i nomi. Così a parte Kieran (perchè memorizzato sul cellulare) gli altri per me sono Fella, Mate e Radamel Falcao. Già abbiamo anche un colombiano fra di noi. E' il nostro pezzo pregiato anche se i campi autunnali (e compagni non all'altezza) lo limitano un pò. Da rivedere con la bella stagione. Nel frattempo incontriamo un gruppo di inglesi che si stanno cambiando. Ci uniamo a loro. Sono tutti sopra la trentina, qualcuno anche oltre i 40 e c'è anche una donna fra di noi. Ma almeno adesso le squadre sono equilibrate.
Intanto il fango sta sempre di più colorando di marrone la mia maglietta del Real-Madrid. Alla prima azione gli avversari buttano un cross alto nel mezzo, la palla sarebbe la mia, ma il portiere urla : "Keepeeeeeer !!!" Mi scanso, ma lui mi prende in pieno pestandomi il piede. Naturalmente ha mancato la palla così che Falcao prende la mira e tira rasoterra. Il portiere è fuori causa. Mi tuffo in spaccata e con la punta del piede metto la palla in angolo, ma rimango intrappolato nella melma. "Good save, man!" mi dice il tipo con la shirt del Sunderland aiutandomi nel tirarmi su. Adesso la mia maglia (e la faccia) è del tutto marrone. Penso: Chi me l'ha fatto fare? Poi mi giro e vedo che sullo spazio verde adiacente al nostro, hanno messo in piedi una partita. Vi sono ragazze e ragazzi, ognuno con un retino in mano. "Are they catching butterflies?" chiedo ai miei compagni di squadra, suscitando sorrisi. Certo che no, ma voglio sapere che stanno combinando laggiù. "No. They play Lacrosse." Ah. Capito. Lacrosse (e che cavolo è?). Beh, qualsiasi cosa sia, meglio il fango e le mie scivolate. @JuriGobbini
Pablo era il più grosso trafficante di droga del
Sudamerica e del mondo. Andrés era uno dei pilastri della nazionale
colombiana composta da una generazioni di campioni che si stavano imponendo a
livello internazionale. Stesso cognome, nessuna parentela ma stesso tragico destino, seppur al culmine di due vite vissute su binari completamente diversi.
Fonte: filmeweb.net
GLI ALBORI-Andrés è un ragazzo molto disciplinato, con una forte passione per
il calcio. Da bambino, gioca tutti i
giorni nei campetti di Medellin fino a quando, a 20 anni, nel 1987, corona
finalmente il suo sogno di entrare a far parte della prima squadra dell’Atletico Nacional. Classico difensore
centrale, elegante nelle chiusure, forte di testa, Andrés guadagna ben presto
la maglia della nazionale segnando il gol dello storico pareggio dei cafeteros a Wembley, contro
l’Inghilterra. La Colombia, che fino a quel momento non esisteva nel panorama
calcistico internazionale, inizia prepotentemente a farsi largo. L’Atletico
Nacional vince la Coppa Libertadores nel
1989, e disputa la finale di Coppa
Intercontinentale contro il Milan, venendo sconfitta solamente nei tempi
supplementari. L’Atletico Nacional è un club ambizioso, con denaro sufficiente
per pagare e trattenere i migliori giocatori. Ma quel denaro veniva da Pablo
Escobar.
Fonte : patriagrande.com.ve
NARCOFUTBOL- A fine anni ’90, Pablo Escobar è stimato come uno degli uomini più ricchi del mondo, grazie ai proventi del
traffico di droga. Quindi, per riciclare i soldi sporchi, Pablo inizia ad
investirli nel futbol. Precisamente nell’Atletico Nacional. Dinero caliente per pagare i migliori.
Ma non c’è solo Pablo. C’è Gonzalo Rodriguez Gacha, detto El Mexicano, con
il Millionarios de Bogotà, e ci sono
i fratelli Gilberto e Miguel Rodriguez Orejuela con l’America de Calì. Le squadre diventano juguetes, giocattoli. I boss della droga non vogliono solo
giocare, ma anche, e soprattutto, vincere. Così calcio e narcotraffico si
annodano pericolosamente assieme, con i potenti pronti a tutto, minacce,
sequestri, corruzioni, fino all’uccisione dell’arbitro Alvaro Ortega che
costringe la federazione a sospendere per un anno i campionati.
LA EPOCA MAS VIOLENTA-Il rapporto di Pablo Escobar con il popolo è ambiguo. Da un lato il
narcotrafficante spietato, dall’altro l’uomo che costruisce campi sportivi, li
illumina, e da vitto ed alloggio ai poveri. Pablo è generoso verso la gente e per questo è visto quasi come un
messia. Ha una grossa passione per il calcio ed un rapporto stretto anche con i giocatori che spesso
invita al proprio ranch per partitelle in cambio di lauti compensi. Ma in Colombia tutti sanno che i soldi
– e quindi la generosità – derivano dal traffico di droga. Così la DEA (il
dipartimento anti-droga statunitense) incomincia a mettere pressione al governo
colombiano ed inizia quindi la caccia a Pablo Escobar. Lui risponde a modo, cominciando la propria guerra contro lo stato, la magistratura e la polizia che provoca sangue
per tutte le strade della Colombia.
Fonte: jon-van-woerden.blogspot.com
UN PALLONE PER DIMENTICARE – In mezzo a tutto il caos, il calcio riparte. Il futbol è un’isola felice
che serve a far dimenticare i problemi. Higuita, Asprilla, Valderrama, Alvarez, Valencia, Rincon, formano la generazione
di campioni che sta tenendo a galla, attraverso il calcio, il nome della
Colombia. Le qualificazioni al Mondiale del 1994 si concludono con un
incredibile 5-0 rifilato dai cafeteros all’Argentina
al Monumental di Buenos Aires. Sotto la guida di Maturana la Colombia si
appresta a partecipare ad Usa ’94 dove è vista da tutti come una possibile
rivelazione. Pelè, addirittura, in una intervista la dà come una delle favorite. Andrés Escobar è uno dei leader di quella selecion. La sua faccia pulita è l’ immagine onesta della Colombia
ed il soprannome di El Caballero della
Cancha dice tutto sulla sua integrità morale.
LA FINE DI PABLO- Nel frattempo Pablo Escobar, per evitare l’estradizione negli Stati
Uniti, si costituisce, anche se in modo del tutto particolare. Fa costruire infatti la propria
prigione, detta La Catedral, sulle
colline di Medellin, dove si appresta a scontare la propria pena. Lì ha tutti i confort, compreso un campo di calcio. Ma il
rapporto fra il boss della droga e alcuni giocatori inizia a creare conflitti.
Higuita, il portiere della nazionale, è sgamato mentre si reca a far visita a
Pablo, e poco dopo arrestato per aver
partecipato, come mediatore, in un sequestro. Si mormora che Higuita sta pagando la sua amicizia con Pablo, ma in realtà pure tutti
gli altri componenti della nazionale fanno visite regolari a Pablo. Nonostante Andrés Escobar non è moralmente d’accordo nell’andare, non ha scelta, così come i suoi compagni di squadra. Tienes que ir …o..ir
Fonte: severorivera.com
E' chiaro che la reclusione di Pablo Escobar è una farsa, così, minacciato
di essere trasferito in una prigione normale, fugge ancora. Nel frattempo il numero dei suoi nemici cresce a dismisura: polizia colombiana, Dea,
cartelli rivali a cui si sono aggiunti anche i Los Pepes, un ambiguo gruppo
capeggiato da Carlos Castaño, ex-affiliato al Cartel de
Medellin. La caccia all’uomo colpisce amici, parenti e persone vicine ad
Escobar, fino alla sua morte. Pablo Escobar fu ucciso il 2
dicembre del 1993. Ma la sua scomparsa non pone
fine ai problemi della Colombia. La violenza prosegue senza regole. Omicidi, bombe
e rapimenti (fra cui il figlio del giocatore dell’Atletico Nacional, Luis Fernando
Herrera, poi fortunatamente rilasciato) sono all’ordine del giorno. Con Pablo Escobar se ne va anche la legge
di Medellin. Prima, nessuno faceva niente senza il suo permesso, adesso la
Colombia vive nel più pericoloso dei far-west.
LA “MANO NEGRA”- Andrés Escobar, come tutti i suoi compagni, soffre la mancanza di
tranquillità. Sta progettando di andare a giocare in Europa, ed ha appena ricevuto un’offerta dal Milan,
nonché da una squadra messicana. Tuttavia dentro di sé sa che la nazionale è
uno strumento importante per dare alla gente del suo paese soddisfazioni. Ma,
nonostante le buone premesse, la Colombia inizia col piede sbagliato
l’avventura statunitense. L’imprevista sconfitta contro la Romania, fa calare
sulla nazionale una “Mano Negra” che
stritolerà per sempre i sogni colombiani. Herrera apprende dell’uccisione del
fratello al rientro in albergo, Maturana viene minacciato, ed obbligato a non
schierare Gomez per il successivo incontro. Scommettitori clandestini
rivendicano la perdita di grosse somme di denaro. La nazionale vive così in uno
stato di terrore, con i giocatori attaccati ai telefoni per avere notizie
rassicuranti sui propri familiari.
Fonte: lashorasrojas.blogspot.com
ADIOS CABALLERO- La sconfitta contro gli USA segna la fine dei sogni colombiani. Andrés Escobar è l’immagine malinconica di
quella nazionale. Uno dei pochi errori della sua carriera causa l’autogolche permette agli americani di andare in vantaggio, nella gara finita poi 2-1.
Andrés è molto triste. Si sente responsabile del fallimento della nazionale.
Tuttavia , al rientro in Colombia, vuole dimenticare. Uscire, affrontare la
gente, scacciare i propri demoni.. Come se niente fosse successo. Così, in una
serata come le altre va con alcuni amici in un locale. Ma, quella del 2 luglio 1994,
non sarebbe stata una serata come le altre. Alcune stupide battute sull’autogol, fanno nascere una discussione. Sembra tutto finito, quando Andrés, di ritorno verso casa, viene
assassinato. Alcune testimonianze aiutano la polizia a ritracciare l’auto dalla
quale sono partiti i colpi, che risulta appartenere ai fratelli Gallon, loschi
personaggi molti vicini al leader del Los Pepes, Carlos Castaño. Ma dopo pochi
giorni, sorprendentemente, a confessare l’omicidio è un certo Humberto
CastroMunoz, l’autista dei fratelli Gallon. Trovato il colpevole – con i
Gallon usciti puliti al 100% - la gente va dicendo che se Pablo fosse stato vivo, nessuno avrebbe toccato Andrés.
E' proprio vero che il calcio italiano è in declino. Fosse stato qualche anno fa, guardarsi il derby della madonnina a London sarebbe stato un gioco da ragazzi. Nel 2012 invece l'operazione è stata talmente complicata che ad un certo punto sembrava quasi impossibile. Naturalmente in tutto questo ha influito la presenza del Clasico Barca-Real quasi in contemporanea, e perchè no, anche di Olympic Marseille-P.S.G. . Così uno dei posti migliori per godersi il football in tv, il Walkabout, un australian pub situato dietro alla stazione della metropolitana di Temple, che avrebbe trasmesso la Liga sullo schermo gigante e la Serie A sui televisori laterali, al momento della prenotazione on-line del tavolo risultava già tutto esaurito. Ritento (sarò più fortunato?) con il Walkabout di Sheperds Bush, ma anche qui nisba:"We are showing the game but we are not taking table booking as we expect to be very busy" la risposta arrivata per email. Dare la caccia in tutta London per trovare un pub che avrebbe trasmesso AC Milan vs Inter Milan e non Barca vs Real era un'opzione da scartare, così, per non saper nè leggere nè scrivere, lo Sport Cafè di Haymarket Street sembrava offrirci le migliori garanzie: posto già frequentato decine di volte, dove la Serie A è un must , al pari di Liga, Ligue1 e Football Americano, per la gioia dei tanti immigrati di tutto il mondo. Ma all'ingresso la faccenda si complica ancora. "£10 each!" ci dice il buttafuori con un sorriso talmente beffardo che voleva intendere, senza dirlo "Ah ci senti ! volevi venire a vedere la partita gratis!!?". Certo che no, ma £10 (!) caro ciccione.... Lo stesso stupore assale anche due spagnoline arrivate nello stesso istante "!Coño! Se paga diez libras!". Adios Sport Cafè, adios Muchachas....
Così il piano B entrava in azione quasi immediatamente. Fra alcune titubanze generali la scelta cadeva sulBar Italia a Soho: lì la partita sarebbe stata trasmessa al 100%, senza alcuna intrusione di spagnoli o francesi. L'unico problema semmai poteva essere la "capienza ridotta" del bar. Attraversiamo a piedi Piccadilly e poi Chinatown, facendo a spallate con turisti distratti dalle luci del centro di Londra, ed orde di cinesi pronti per andare a cena. Per guadagnare tempo acceleriamo il passo, tentando anche qualche azzardo nell'attraversare la strada. Distratto da due sgargianti milfs dirette verso il Palace Theatre, rimango attardato, tant'è che i miei due compagni di avventura mi devono aspettare. La soluzione alla fine si rivelava azzeccata: nessun dazio doganale all'ingresso ed atmosfera tipica italiana. Il bar è il tipico locale che puoi trovare a Roma o Milano (o in qualsiasi altra città), lontano mille miglia dagli standard turistico-commerciali dei vari Pret, Caffè Nero, Costa o Starbucks, e che conserva quel tocco di italianità che non guasta mai: bancone lungo, classiche bottiglie di amaro, foto in bianco e nero alle pareti. Anche se sono un'amante del cosmopolita-style che offre London, una serata così ci stava proprio bene. Sgusciando in mezzo alla gente, ci ritagliamo uno spaziettino quasi in davanti alla (unica) televisione, giusto in tempo per il calcio d'avvio. Da neutrale rimango indifferente al gol di Samuel, anche se da buon amante del calcio speravo che il vantaggio avrebbe vivacizzato la gara. Invece il Milan (qualcuno ne ha sottolineato lo scarso avvio di campionato con un "Figa abbiam gli stessi punti del Pescara!") combinato ben poco di costruttivo - polemiche a parte per un gol annullato e un rigore negato - contro un Inter piazzata in difesa con il più classico dei catenacci anni '60. @JuriGobbini
LONDON- Luca Alfatti di strada ne ha fatta,
e parecchia. Non solo nel significato metaforico della frase, ma anche, e soprattutto
nel senso pratico, visto che dal 2007 scorrazza in lungo e in largo per il
mondo con il suo camion carico di turisti. Già perché quasi sei anni fa, Luca,
originario di Città della Pieve, paese al confine fra la Toscana e l’Umbria, ha avuto la brillante idea di diventare guida
turistica. Dopo le esperienze lavorative in Inghilterra, Usa e Nuova Zelanda, l’allora
obbiettivo era quello di continuare a viaggiare, lavorando al tempo stesso.
Così è iniziata la sua avventura con la ditta inglese Dragoman, specializzata in vacanze Overland.
AROUND THE WORLD -Dopo l’addestramento sui camion sono
arrivati i primi incarichi: Sud-America, Africa ed ancora Sud-America. Poi nel
2011 è toccato all’Asia ad essere esplorata in lungo ed in largo, da Istanbul
fino alla Cina, passando per Nepal ed il Caucaso. Serio, affidabile, socievole, comunicativo ed intrattenitore,
Luca è stato definito one-man Lonely
Planet per le sue conoscenze, tant'è che i turisti possono fare a meno di cartine e guide. Tra i vari feedback ricevuti dai lettori del
magazine Wanderlust il “Può avere una
interessante conversazione sia con un dicianovenne saccopelista che con un
settantacinquenne vedovo” rende bene l’idea della sua disponibilità ed
apertura al dialogo.
IL PREMIO- Così era arrivata la nomination per
il Wanderlust World Guide Awards, dove Luca era in lizza con Nyi Nyi “Frankie” Naing (Guida in Burma
e Myamar per conto della Golden Travel e Panoramic Journeys), Bhupendra Sharma (Guida in India e
Nepal per la G Adventures) giunti terzi a pari merito, e con Simyra Taback-Hlebechuk (Guida in
Alaska per la Hallo Bay Wilderness Camp), vincitrice del secondo premio. Oltre alla targa celebrativa, Luca
Alfatti intascherà una Bursary Plan di
£ 5,000, somma di denaro che prontamente
investirà in una comunità in Guatemala al supporto di orfani e madri
abbandonate. Nel frattempo, Luca lavorerà a nuove rotte ed itinerari futuri.
Nel 2013 poi sarà in Brasile e successivamente in Centro e Nord-America per un
nuovo tour.
LONDON-Forse non ci sarà stata l'atmosfera nè della Champions, nè dell'Europa League, ma la storica cornice del White Hart Lane ha dato quel pizzico di risalto in più all'incontro di Next Generation fra Tottenham e Barcelona. Nonostante il Tottenham si presentasse in veste di capolista del girone - grazie alla vittoria nella gara iniziale contro il Wolfsburg - ed un inizio coraggioso, il Barca riusciva a prendere subito in mano le redini del gioco, grazie alla sapiente regia di Sergi Samper, che coadiuvato da Pol Calvet e Fernando Quesada dava ritmo a tutta la squadra blaugrana, schierata da Jordi Vinyals con il classico 4-3-3 dove Adama ed il camerunense Ebwelle erano gli esterni alti, ed il canario Sandro la punta centrale. Gli Spurs si affidavano si guizzi del centrocampista offensivo Pritchard, schierato esterno sinistro con licenza di tagliare al centro, a fare da supporto a l'ex-Siena Coulibaly, unica punta centrale, anche se difettavano nel costruire gioco. SPURS COLPITI -La partita del Barcelona si faceva in discesa al 26° minuto, quando Adama, sulla corsia, buttava la palla in avanti e superava di slancio Stewart. Sul suo cross rasoterra la retroguardia del Tottenham era colpevolmente in ritardo e Sandro poteva mettere dentro indisturbato. I padroni di casa faticavano a ritrovarsi, e le uniche azioni degne di nota arrivavano nel finale di primo tempo, prima con Coulibaly, bravo a liberarsi a centro area, ma fiacco nella conclusione, e con Pritchard che dal limite centrava in pieno la traversa. Scampato il pericolo, nella ripresa il Barca faceva di tutto per addormentare la gara e cercare di limitare i danni, riuscendoci alla grande. Sergi Samper impreziosiva sempre di più la propria gara con fraseggi corti palla a terra, mostrando una naturale capacità di uscire indenne da una gabbia di 3-4 giocatori, triangolando con un compagno o semplicemente con una finta o un movimento traditore. Anche la difesa faceva la sua parte e la morsa formata da Costa e da Bagnack era troppo forte anche per il quotato Coulibaly che passava una serataccia al punto tale da venir sostituito da Onomah, con Coulthirst spostato nel ruolo di prima punta.
SANDRO BIS - Nonostante le variazioni apportate da Inglethorpe, il Barca era sempre padrone, andando vicino al raddoppio un paio di occasioni, prima di centrare il 2-0 al 28° minuto. Direttamente su un rilancio di Ondoa, Sandro sgusciava via in mezzo ai due centrali della difesa londinese - ancora una volta colti impreparati - e filava dritto verso Vigouroux battendolo freddamente. La partita si chiudeva virtualmente qui, il Barca iniziava la girandola delle sostituzioni, e l'ultima emozione, arrivava nel recupero quando McEvoy colpiva di nuovo la traversa sugli sviluppi di un calcio d'angolo. Con i tre punti conquistati in terra londinese i catalani salgono al comando del girone con 4 punti, mentre gli Spurs vengono raggiunti dal Wolfsburg a quota 3. Tabellino: TOTTENHAM-BARCELONA 0-2 Sandro 26, 72 TOTTENHAM (4-3-3): Vigouroux; A.Mc Queen, Ball (Ogilvie 74), Veljkovic, Stewart; Gallifuoco (Coulthirst 51), Dombaxe, Bentaleb (Lamerias 74); Mc Evoy, Coulibaly (Onomah 65), Pritchard. All.Inglethorpe BARCELONA (4-3-3): Ondoa; Ekpolo, Costa, Bagnack, Quitilla (Lucas 86); Quesada (Babunsky 77), Samper, Calvet; Adama (Cristian 77), Sandro (Huertas 86), Ebwelle (Olivan 82). All.Vinyals ARBITRO: Wayne Barrat (England) @JuriGobbini
Come sarebbe il Barcelona senza Xavi e Iniesta? Messi farebbe le stesse caterve di goal? Nel calcio – che scienza esatta non è – trovare risposte a quesiti di questo tipo non è certamente facile. Basterebbe però osservare il rendimento dell’asso argentino con la propria nazionale per farsi un’idea più precisa di quanto importanti sono i suoi compagni di squadra blaugrana. PLAYMAKER- Un regista, di quelli che dirigono fili dell’orchestra di una squadra, è merce preziosa. Chi ce l’ha, tenta di trattenerlo ad ogni costo, o nel peggiore dei casi, lo vende a peso d’oro. Così ha fatto il Tottenham, che lo scorso anno riuscì a tenere Luka Modric nonostante la corte serrata del Chelsea, ma che quest’estate ha ceduto all’offerta del Real, assecondando il desiderio del giocator di far parte di una grande, ed intascando oltre 30 milioni di sterline. Grottescamentte la scorsa stagione Andrè Villas-Boas era seduto sulla panchina del Chelsea, mentre quest’anno è in carica come manager del Tottenham. Non sappiamo se l’avvallo alla cessione di Modric da parte di AVB, sempre che ci sia stato, è stato dettato da motivazioni aziendalistiche – il presidente degli Spurs, Levy era ansioso di fare “cassa” con l’asso croato – sta di fatto che adesso il rampante allenatore portoghese dovrà ricreare quasi completamente il reparto di centrocampo, data anche la contemporanea cessione di Rafael Van der Vaart all’Amburgo. NEW SPURS -Gli ultimi arrivi di Dembélé e Dempsey, uniti a quello di Sigurdsson e la conferma di Adebayor, fanno parte del nuovo progetto AVB, specialmente con l’islandese che dovrebbe assicurare il dopo-Modric nel ruolo di regista. Ma gli ingranaggi, i meccanismi, sono difficili da assorbirsi, anche per un giocatore con grandi capacità tecniche come Sigurdsson. Così il nuovo corso degli Spurs è ancora – pericolosamente – in fase di rodaggio. L’inizio è stato dei peggiori: sconfitta a Newcastle, e due pareggi interni con West Brownich e Norwich, due squadre che sulla carta si dovranno lottare la salvezza, con i “canarini” che alla prima giornata avevano addirittura preso 5 sberle in casa del Fulham. Due punti in tre gare ed un gioco che non convince affatto. RODAGGIO -Villas-Boas contro il Norwich, complice anche l’assenza di Parker, ha scelto la classica formula con due mediani (Sandro e Livermore) un regista avanzato (Sigurdsson) ed il classico tridente offensivo con Bale e Lennon sugli esterni e Defoe unica punta. Confrontando i due schieramenti non ci doveva essere stato paragone, in realtà il Norwich, con un atteggiamento tattico ordinato, mirato a contenere e ripartire, si è difeso con ordine collezionando addirittura tre clamorose palle gol nel primo tempo contro nessuna degli Spurs. PORTE CHIUSE-La risposta a cotanta abulia di creatività è semplice e rispecchia l’atteggiamento in campo dei giocatori del Tottenham: nessuno in grado di prendere l’iniziativa e dettare i tempi del gioco, Sigurdsson più vicino a Defoe che in supporto ai due mediani con il risultato che ad impostare toccava a Sandro o Livermore, due più adatti a tamponare e cucire che a distribuire palloni. La manovra risultava lenta, i passaggi prevedibili e facilmente preda della difesa del Norwich, pronta a ripartire in contropiede. Gli unici sussulti arrivavano da qualche sgroppata di Gareth Bale, ma anche l’asso gallese faticava a trovare spazi per il guizzo vincente. SPURS PUNITI- Nella riprese AVB gettava nella mischia Dembélé, Adebayor, tirando fuori Sandro e Sigurdsoon modificando il 4-2-3-1 in 4-4-2. Nonostante il vantaggio , ottenuto grazie proprio a Dembélé, gli Spurs non brillavano ancora, con le pecche evidenziate nel primo tempo alleviate dal parziale vincente, ma non certo curate del tutto. Così a riaprire la ferita ci pensava Snodgrass (vedi video)che firmava il meritato pareggio nel finale, dopo che AVB aveva sostituito Defoe coprendosi con un centrocampista di sostanza come Huddlestone (espulso poi per un ruvido tackle su Howson). FUTURO – Per AVB sono già arrivate le prime nubi sul cielo di North London. L’importante esame di riparazione, dopo la disavventura della scorsa stagione sulla panchina del Chelsea, inizia subito in salita. Riportare gli Spurs ai livelli di gioco mostrati nelle ultime due stagioni (o almeno fino allo scorso febbraio) , senza il suo principale attore, Modric, non è una impresa facile, ma se il rampante allenatore portoghese vorrà ottenere qualche successo, questo è il reparto che va modellato al più presto, assieme alla difesa naturalmente dove Gallas e Assou-Ekotto devono trovare quanto prima la giusta forma, vista anche la contemporanea assenza per 4 mesi di Kaboul. Altrimenti, se squadre come il Norwich – onesta formazione, ma destinata alla lotta salvezza –continueranno a portare via punti al White Hart Lane, gli obbiettivi dovranno essere ridimensionati. Per la felicità di Mr Levy…. @JuriGobbini
I tempi migliori. I tempi
peggiori. La Spagna, campione d’Europa e
del Mondo, è la nazionale più vincente nella storia del calcio, avendo
trionfato in tre competizioni a fila, e il 4-0 con cui ha demolito l’Italia, è
il più grosso margine mai riscontrato in una finale.
Allo stesso tempo,
Barcellona e Real Madrid sono indiscutibilmente le due più forti squadre del
continente e anche i favoriti per il prossimo Pallone d’Oro fanno parte delle
loro rose. Come sempre. Dal 2005, solo in rarissime
occasioni il vincitore del Pallone d’Oro non aveva fatto parte né di Real né
del Barca. Comunque, alla fine, sia Kakà che Cristiano Ronaldo sono arrivati al
Bernanbeu. Negli ultimi 2 anni, Real
e Barcellona hanno vantato tutti e sei giocatori finiti sul podio, con Ronaldo
che ha rotto il dominio assoluto del Barca.
Ogni settimana che passava, Real e
Barca, Ronaldo e Leo Messi, continuavano a infrangere record che sembravano
appartenere ad un'altra era. Ronaldo batté il record di 38 goal che era
resistito per 20 anni, mentrela
stagione immediatamente successiva, Messi fece di meglio, raggiungendo quota 50
gol. Se il Barcellona toccò quota 99 punti in campionato, due anni dopo, il
Real Madrid arrivò a 100. Numeri ed imprese che da impossibili diventano
improvvisamente facili.
In un duello dove ogni
pareggio è considerato come una sconfitta, un motivo che spiega questi
sorprendenti numeri è che loro sono
obbligati ad ammassare punti su punti, record su record. La pressione è così
soffocante le due squadre si trascinano a vicenda, troppo consapevoli del fatto
che ogni piccolo intoppo potrebbe essere decisivo. Un’altra ragione è che loro
possono.
La Liga non è un campionato
facile. Barcellona e Real entrambe hanno centrato la semifinale di Champions
League negli ultimi due anni (il Barca vinse l’edizione 2010-11) e saranno le
favorite per la finale anche quest’anno, naturalmente. Due squadre
assolutamente fantastiche con altrettanti campioni, alcuni fra i migliori nella
storia. Due squadre che vincerebbero sicuramente la Premier League.
Per tutti i criticoni che
ogni volta, parlando di Messi dicono:“Vorrei vederlo segnare anche in un
campionato più difficile” la ovvia replica è “Perché
non guardate la Champions League? E’ la miglior competizione continentale e lui
ne è stato capocannoniere per 4 stagioni in fila”. Quando invece tirano fuori
il nomeidi Ronaldo, basta richiamare all’attenzione i suoi 42 goal
stagionali con la casacca del Manchester Utd.
La scorsa stagione
l’Europa League fu contesa in finale da due squadre spagnole: Atletic Bilbao e
Atletico Madrid. Atletico Madrid vinse il suo secondo titolo in tre anni dando
alla Spagna la quinta vittoria nelle ultime nove stagioni. Se l’Europa League è
il torneo che misura la qualità di un campionato, allora quello spagnolo è
sicuramente fra i più difficili. Se La Liga è una corsa fra due cavalli, la quale
è, non vuol dire che gli altri sono somari. Almeno non ancora.
Jose Mourinho aveva
affermato che qualsiasi squadra nel mondo che avesse partecipato a La Liga
sarebbe arrivata terza, dietro le due grandi. Mou ha avuto ragione. Per ora. Ma il
punto non è solo battere gli altri club, ma nella loro distruzione, che poi
porterà alla rovina del campionato, con la federazione stessa complice della
proprio fine.
Questa settimana, 13 squadre si sono unite, cercando di forzare
la Liga de Futbol Profesional di
occuparsi del problema. Modifiche nel sistema di distribuzione dei ricavi dei
diritti Tv e degli orari delle gare, questi i principali cambi richiesti. Nell’ immediato, i clubs
volevano che la LFP prendesse le loro difese nella battaglia contro le compagnia
televisiva. Si parlava persino di uno sciopero, che avrebbe minacciato l’inizio
del campionato.
Ma i loro tentativi sono
andati falliti. La LFP è guidata dal presidente che portò alla crisi economica
il Real Sociedad, lo stessa persona che si vanta di gestire i diritti Tv di 30
società fra le prima e seconda divisione ma con molti dubbi su i suoi reali
interessi. Il presidente dell’Atletico Madrid Enrique Cerezo fece notare che la
LFP dovrebbe difendere i diritti di tutti i clubs, ma questo non sembra
interessare minimamente. “Il resto
dell’Europa ci prende in giro” dichiarò Joan Collett CEO dell’Espanyol. La
buona notizia è che il campionato alla fine inizierà come previsto.
E’ ben documentato che i
contratti TV sono stipulati individualmente in Spagna. Real e Barcellona
guadagnano tre volte più di Valencia e Atletico Madrid. Questa non è l’unica
risorsa dei loro guadagni, ma è la più significante. €120m contro €42m stagionali
potrebbe non sembrare una grossa differenza, ma anno dopo anno, il divario si
ingigantisce.
Questo è un fatto sia economico
che sociale: almeno due terzi del paese dichiara di essere tifoso del Real o
del Barcellona, mentre il rimanente terzo ha nel Real o Barcellona la propria
seconda squadra. Se milioni di persone
guardano le loro gare, allo stesso tempo – stando alle dichiarazioni
private di un dirigente della federazione spagnola – un paio di stagioni fa, il
numero di pay-per-view ottenutieper una gara che non vedeva coinvolto né Real
nè Barca, fu solo 47. Si proprio 47. Questo è il mercato locale, mentre quello internazionale è quasi interamente
catturato dai due clubs.
C’è una differenza fra le
solite due (o tre, massimo quattro) squadre che vincono il campionato e le due
che vincono virtualmente ogni gara. Non
è normale che una vittoria con quattro-cinque reti di scarto sia più comune di
una con uno o due gol di divario, ma
questo è quello che accade. La scorsa stagione il Valencia finì terzo, 39 punti
dietro i campioni. Nei due campionati precedenti il distacco fu di 25 e 28
punti. Primo di loro, era toccato al Siviglia arrivare terzo, con un divario di
27 punti.
Questa è la realtà. Calcistica
ed economica. Fatti che si perpetuano anno
dopo anno creando un vortice che spinge sempre più in alto le due big, e sempre
più in basso le altre squadre. Jordi Alba è passato dal Valencia al Barcellona,
Luka Modric con molta probabilità passerà dal Tottenham al Real. Nelle ultime
tre stagioni, è riscontrato che La Liga ha preso i migliori giocatori della
Premier League (Ronaldo, Fabregas), Serie A (Kakà, Ibrahimovic) e Bundesliga (Sahin).
Ma questo dipende da quello che si vuole dire per La Liga, visto che Real e
Barcellona da sole sono La Liga stesso. Questo è esattamente quello che fanno.
E quello che loro fanno, anche le Tv e i media fanno. E così i fans.
La Spagna giocherà in
Porto Rico mercoledì sera. Un’altra amichevole oltreoceano di cui nessuno
importa nulla, programmata quattro giorni prima dell’inizio nella nuova
stagione. L’unico dibattito è se i giocatori di Real e Barcellona giocheranno
lo stesso numero di minuti. In pochi importa del resto.
Se le due big continuano
a rinforzarsi, per le altre mantenersi è
il massimo dell’aspirazione. L’acquisto più caro del Valencia nel mercato
estivo è costato €3.7m mentre quello del Sevilla €3.5m .La maggior parte delle
altre non possono nemmeno permettersi queste cifre.
Quest’anno, Real e
Barcellona, hanno investito più denaro
nei giocatori dei loro team B che metà delle altre squadre hanno fatto per la
prima squadra.
Invece di arrivare, i
giocatori fanno le valige. Persino nella Costa del Sol. L’unico team che in
teoria avrebbe potuto sfidare le due big era il Malaga ma, dopo aver speso €60m
nella scorsa stagione, lo sceicco Al-Thani ha chiuso il rubinetto. Santi
Cazorla è andato via, così come Salomon Rondon. E ci potrebbero essere
ulteriori cessioni.
La verità è che la gente
vuole veder giocare i migliori calciatori e, in questo senso, il campionato
spagnolo rimane il top nel mondo. Se vuoi vedere Messi e Ronaldo, devi
guardare La Liga. Ma la loro supremazia, e il dominio di Real e Barca, ha fatto
si che altri ottimi giocatori non sono più in vetrina.
Meglio e peggio non sono
concetti opposti, ma sono correlati fra di loro. La mancanza di soldi ne La
Liga – a parte le due big – significa maggiori opportunità per calciatori
spagnoli. Ma inevitabilmente questi finiscono nell’orbita di Real o Barca. Il Valencia
aveva quattro protagonisti del Mondiale, ma a distanza di un anno, tutti se ne
erano andati. E un se un altro era riuscito a raggiungere la nazionale – Jordi Alba in Euro 2012 – già prima della finale era diventato un
giocatore del Barcellona.
Nell’undici iniziale, solo
David Silva non faceva parte di Real e Barcellona, avendo lasciato La Liga due
stagioni fa. Persino Real e Barcellona non possono avere tutti. I migliori giocatori
in Spagna che mirano ad un ingaggio maggiore e trofei hanno due scelte: andare
in una delle due grandi, o lasciare la Spagna.
Al di là delle due big,
chi sono stati i migliori giocatori in Spagna negli ultimi 5 anni ? Sergio
Aguero? Dani Alves? David Villa? Diego Forlan? Giuseppe Rossi? Fernando
Llorente? Juan Mata? Cazorla? Sergio Canales? Radamel Falcao? Di certo ci
sono eccezioni fra loro, ma il quadro
generale è logico. Dove sono adesso? Nelle due big o all’estero. Perché aspettare?
Un movimento verso Madrid o Barcellona non è una novità, ma adesso è diventato
quasi uno sprint. Il processo è stato accelerato.
Nella lista sopra, Rossi
è ancora al Villareal,perché hanno deciso di vendere Cazorla, e, malgrado due
infortuni al ginocchio in un anno, sicuramente anche lui farà le valige presto.
Falco è sempre all’Atletico Madrid ma la società possiede solo metà dei suoi
diritti. E questa settimana è stato annunciato che Llorente vuole lasciare l’Atletic
Bilbao. Nessuno pensa ad un suo trasferimento in un “altro” club spagnolo.
Persino Michu è partito
quest’estate, dal Rayo Vallecano allo Swansea City. Ed Arouna Konè ha lasciato
il Levante.
Questo significa che – presumendo che anche Llorente se ne andrà –
a parte Real e Barcellona, tutti i team qualificati per l’Europa hanno perso i
loro migliori giocatori, eccezion fatta per l’Atletico Madrid. Ma se i Cholconeros sono riusciti a trattenere
Falcao, hanno perso comunque Diego. Il divario fra le due big ed il resto del
gruppo si fa quindi sempre più incolmabile. La partenza di Cazorla è stata una
cattiva notizia sia per il Malaga che per il campionato, visto che ha avvalorato
quanto detto sopra. Peggio ancora, ha provato che il club che più di ogni altro
avrebbe potuto invertire la tendenza, in realtà non può.
Questa stagione sfornerà
ancora storie e grandi caratteri. Nuovi talenti emergeranno – da tenere d’occhio
Oliver Torres dell’Atletico Madrid – e ci saranno nuovi eroi. Ci saranno nuove
sfide al di là delle due big, come sempre d'altronde, anche se troppo spesso
ignorate dai più. Il timore, comunque, è che si sarà un finale come sempre familiare.
Quando nuovi talenti emergeranno, guarderanno Real e Barcellona da lontano,
molto lontano, e allora dovranno fare “la
scelta”. Unirsi a loro. O lasciare la Spagna.
Traduzione dell'articolo The dirtiest race scritto da Richard Moore e pubblicato sul numero 259 del 8 giugno 2012 (leggi l'articolo originale) del settimanale inglese Sport
C’è un evento, e con esso un atleta, che sovrasterà tutti gli altri ai prossimi Giochi Olimpici di Londra. L'atleta in questione è un colosso di quasi
2 metri conosciuto come il più veloce uomo nella storia e acclamato come il
salvatore dei 100 Mt. Stiamo parlando di Usain Bolt, naturalmente.
Ventiquattro anni fa, alla vigilia dei Giochi Olimpici di
Seoul, c’era la stessa trepidante attesa intorno alla finale maschile dei 100
Mt. Ma la differenza con allora, è che l’evento non vantava un uno protagonista,
ma ben due. Due Usain Bolt.
Un altro particolare era l’aria di innocenza che si
respirava : niente dei sospetti o scetticismi che dal 1988 in poi avrebbero
accompagnato ogni campione olimpico. Questo perché quello che accadde in Seoul
- quando il canadese Ben Johnson, detto il “proiettile umano”, incrociò la
propria strada con quella dell’asso americano Carl Lewis- cambiò lo sport per
sempre.
Per prima cosa, lo sprint in se stesso, il quale superò
ogni aspettativa: con Johnson che stracciò il vecchio primato mondiale e con ben
tre altri sprinters scesi sotto i 10 secondi, la gara fu dichiaratala
migliore di tutti i tempi.
Poi, 48 ore dopo, arrivò la notizia bomba, che fermò di
colpo tutta l’Olimpiade, e che avrebbe ribattezzato la finale di Seoul come la gara più scorretta di tutti i tempi.
KING
CARL vs BIG BEN
Jonhson e Lewis erano tipi di atleti ben differenti dai classici
Rogert Bannister o Sebastian Coe, entrambi simboli del professionismo nello
sport. Quando nel 1984 Lewis eguagliò il record del grande Jesse Owens,
vincendo quattro medaglie d’oro all’Olimpiade di Los Angeles, il suo manager
aveva previsto che sarebbe diventato una superstar del calibro di Micheal
Jackson. Jonhson, nel frattempo girava in Porche e Ferrari, una volta
indugiò a partecipare all’inaugurazione di un supermarket di Toronto, perché gli
offrivano “solo” 60000 Dollari per tagliare il nastro. Dopo Seoul, il prezzo sarebbe
salito a più di 10 milioni di Dollari.
Come le più grosse rivalità nello sport, Johnson e Lewis
erano uno l’opposto dell’altro. Lewis con il suo stile snello e aggraziato, è spesso
considerato come sprinter con più elegante nella storia dell’atletica, mentre
Johnson era tutto muscoli e potenza. Se Lewis era Micheal Jackson, Johnson, il
suo antagonista, era l’incredibile Hulk.
La rivalità esplose dopo Los Angeles, quando Johnson
batté Lewis per la prima volta a Zurigo, nel 1985. L’equilibrio saltò nelle
successive due stagioni, nelle quali Johnson continuò a battere Lewis, compreso
al Meeting di Roma, nel 1987, dove stabilì il nuovo record mondiale -9.83
secondi- nove centesimi in meno del vecchio primato.
Ad aggiungere sale alla rivalità c’era anche il fatto che
i due non andavano minimamente d’accordo. E dopo Roma il loro rapporto diventò
ancora più apro quando Lewis rilasciò un’intervista nella quale alludeva a
presunti usi di sostanze proibite da parte di Johnson. “Avverto una strana aria in queste competizioni – commentò Lewis – molti atleti si affacciano improvvisamente
alla ribalta gareggiando in maniera incredibile e non penso che lo facciano senza
assumere nessuna sostanza. Le cose stanno diventando peggio che mai. Se prendessi
sostanze, correrei anch’io 9.80 senza problemi – concluse Lewis – proprio come fa lui.”
“Lui” naturalmente era riferito a Ben Johnson. L’allenatore
del canadese, Charlie Francis, prendendo le difese del proprio atleta, rispose
per le rime a Lewis. “Ben gareggia molto
ed si sottopone quindi a tanti controlli. Con quali prove la gente lo accusa
di doping? Io pensoche Carl (Lewis)
è fortunato che nessuno gli abbia ancora
fatto causa.”
Nell’avvicinamento all’Olimpiade di Seoul, con Johnson
sofferente per un infortunio, l’equilibrio tornò di nuovo in favore di Lewis. Il
canadese litigò pure con il proprio coach Francis e scappò a St Kitts, dove si
godette sette settimane di relax sulle spiagge dell’isola caraibica.
“Necessitavo riposo
-commentò Johnson quando intervistato da
Richard Moore per il libro - presi 25
pounds (circa 9 kilogrammi) ma mi godetti la vacanza, mangiando, bevendo e
divertendomi”
Lewis, nel frattempo, sembrava aver ritrovato la sua
miglior forma. Ad Indianapolis, durante i trials pre-olimpici, corse i 100 Mt
in 9.78, con l’aiuto del vento. “Quindi?
– commentò la notizia Johnson – Se fossi
stato lì avrei fatto 9.2 ….Nei primi 40 metri ha fatto schifo! Come sempre !”
“Tutto quello che
so, è che non mai gareggiato meglio di così - ribatté Lewis -mentre
lui non sta correndo affatto.”
L’EVENTO
Seoul era quindi la cornice perfetta. Anche se c’erano 8
finalisti, incluso il britannico Linford Christie, la gara era solo fra due
uomini: Lewis in terza corsia e Johnson in sesta. La psicologica battaglia aveva
avuto inizio ben prima che gli atleti scendessero in pista.
“L’area di
riscaldamento è il posto perfetto per imparare a conoscere gli atleti -commentò
il coach britannico Frank Dick –e potevi
vedere i loro riti e i loro differenti approcci. La scontrosità di Johnson, e l’appariscenza
di Lewis. Loro erano come due pugili. O gladiatori. La tensione si avvertiva
nell’aria.”
In pista, Johnson si muoveva avanti e indietro senza
sosta, quasi come a minacciare gli avversari. Come ritornò ai blocchi di
partenza, una figura si presentò dietro di lui. Era Lewis, il quale stava
facendo il giro degli altri partecipanti, con il consueto rito della stretta di
mano. I due si fissarono. Preso alla sprovvista, Johnson sembrò sul punto di
stringere la mano a Lewis, salvo ritirarsi all’ultimo istante. “Io non stringo la mano a nessuno –
commentò il canadese – Noi non siamo
amici. Io sono venuto qui solo per vincere. Carl stava solo cercando di
arruffianarsi con gli altri.”
Johnson riprese a pensare solo alla corsa e tolse la
propria maglietta gialla, rimanendo solo con la casacca del Canada e con la vistosa
catena d’oro ballonzolante sul suo petto muscoloso. Anche Lewis vestiva di
rosso, con bordi bianchi però. “Nei film
western, c’era sempre un uomo col cappello bianco ed uno col capello nero –
disse Lewis – e io mi sentivo di
indossare i panni di del buono, quello con capello bianco, che cercava di
battere l’altro, il cattivo.”
Quando gli sprinter furono chiamati alla partenza, tutti
si mossero in avanti, Johnson fu l’ultimo a piazzarsi sui blocchi, con le sue
spalle muscolose che spingevano con forza le mani sugli angoli opposti della propria
corsia. Alla sinistra di Johnson, Lewis si inginocchiò, fissando in avanti, con
il suo braccio sinistro appoggiato sulla coscia. Si grattò il naso, diede un’occhiata
rapida verso il rivale, poi si piazzò sui blocchi, inchinando la propria testa
in avanti, come se fosse in preghiera. Johnson, più basso di Lewis, si
accovacciò pure lui, pronto a scattare.
Quando la pistola decretò il via, la partenza di Johnson
fu terrificante. Sembrava un felino, perfettamente bilanciato e imprendibile.
Lewis impiegò più tempo per distendere la propria falcata e dopo 10 metri era già
6 centesimi di secondo in ritardo. Ai 20 metri, allungò rapidamente il suo
sguardo verso Johnson. Lo fece altre tre volte, e la sua faccia rivelò prima
paura, poi panico ed infine dolore. La partenza era l’arma migliore di Johnson,
mentre quella di Lewis era l’allungo finale. Ma anche se riuscì a recuperare
qualcosa nei metri conclusivi, era ormai troppo
tardi. A cinque metri dal traguardo, Johnson finalmente guardò verso
Lewis e con la sua testa rivolta verso sinistra, alzò il proprio braccio destro
, puntando con l’indice verso il cielo. Il cronometrò si fermo a 9.79 . In
seguito del suo trionfo, a Johnson fu chiesto cosa gli importasse di più, la
medaglia d’oro, o il record del mondo. “La
medaglia d’oro – rispose lui – perché
nessuno te la può portare via.”
LO
SCOPPIO DELLA BOMBA
Quello che capitò due giorni dopo, fu tanto drammatico quanto
la gara stessa. Per chi stava guardando la Tv in Gran Bretagna, la notizia fu
data da Des Lynam sulla BBC. “Ho appena
avuto una notizia che, se confermata, passerà alla storia come la più
drammatica di queste Olimpiadi, o con molta probabilità di tutte. Secondo fonti
provenienti dal CIO è emerso che l’atleta canadese Ben Johnson è stato scoperto
ad aver fatto uso di sostanze dopanti e perciò verrà privato della medaglia d’oro
conseguita nei 100 mt.”
Quando la notizia fu confermata, a Johnson vennero tolti
sia l’oro olimpico che il record del mondo. Il canadese, che lasciò di fretta
Seoul, fu calunniato e disonorato, e, a distanza di 24 anni, rimane ancora un
emarginato. Eppure, almeno cinque dei partecipanti a quella finale, incluso
Lewis, sarebbero poi stati macchiati di accuse di doping. Nel 2003, infatti,
emerse che Lewis risultò positivo ad uno stimolante durante i Trials
statunitensi del 1988, e perciò , stando ai regolamenti del CIO, avrebbe dovuto scontare una squalifica di tre
mesi, che gli avrebbe fatto saltare le Olimpiadi di Seoul. Ma fu prosciolto.
Rimangono ancora irrisolte alcune domande. Come mai
Johnson, che aveva usato steroidi per sette anni, fu beccato proprio a Seoul? Cosa
successe di sbagliato (per lui) ed in che maniera i laboratori scoprirono l’inganno?
E chi era quel misterioso signore seduto affianco a lui nella stanza del
controllo anti-doping?
Qualsiasi cosa successe quel giorno, lo strascico di
Seoul resiste ancora. Questo è perché, da allora, i sospetti hanno iniziato a
perseguitare chiunque avesse reclamato il titolo di “uomo più veloce sulla faccia della terra”. E questo è perché Usain
Bolt è visto da molti come il salvatore, l’uomo in grado di restituire la giusta
reputazione ad un evento ancora così seriamente macchiato dagli eventi di 24
anni fa.