martedì 1 dicembre 2015

Jürgen Klopp e la vera storia del Gegenpressing









Febbraio 1983. Il mediano Ralf Rangnick, giocatore-allenatore del Viktoria Backnang, formazione di sesta divisione tedesca, non era nuovo ad amichevoli contro squadre di categoria superiore, ma quel giorno non riuscì a smistare nemmeno una palla. Di solito i professionisti ti lasciavano un po’ giocare, per poi colpire grazie alla loro maggiore classe. In fin dei conti si trattava solo di una amichevole. Ma quei russi no. Non appena uno di quei poveri dilettanti tedeschi aveva la palla, loro si fiondavano in pressing, soffocando qualsiasi tentativo di giocata.
Ad un certo punto Rangnick si fermò, alzò lo sguardo ed iniziò a contare gli avversari. Nove, dieci, undici… No, non giocavano in superiorità numerica. Semplicemente praticavano un calcio ed un livello di pressione mai visti prima.
I russi in questione erano la Dinamo Kiev, che erano soliti passare l´inverno in Germania mentre il campionato sovietico era fermo per la pausa invernale. Quella squadra era ricca di stelle dell´epoca, da Oleg Blokhin ad Alexandr Zavarov, fino ad un giovanissimo Aleksey Mikhaylychenko. Molti di quei giocatori facevano anche parte della nazionale URSS ed il loro allenatore era il leggendario Valeri Lobanovski.
Ralf Rangnick
La Dinamo Kiev dovrebbe essersi trovata molto bene nella pace del Baden-Württemberg, nell´allora Germania Ovest, visto che fecero ritorno anche negli anni seguenti. Rangnick, incuriosito, diventò presenza fissa a bordo campo. Munito di block-notes, iniziò a spiare gli allenamenti per riuscire a capire esattamente come diavolo si allenavano.
Nel frattempo Rangnick aveva pure iniziato il corso per diventare allenatore professionista e nel 1985, a soli 27 anni, ottenne la sua prima panchina ufficiale, quella dello Stoccarda II, le riserve degli Schwaben.

A Stoccarda, Rangnick incontrò Helmut Groß, che nei primi anni 80 aveva guidato il Geislingen, un club che militava in sesta divisione, nei campionati regionali del Baden-Württemberg. Seppur a livello dilettantistico, Groß era un innovatore. Amante della zona e del calcio totale, Groß aveva intuito fin d´allora che marcare a zona era più efficiente che farlo ad uomo, e che l´energia risparmiata grazie al migliore posizionamento poteva essere usata per pressare direttamente dentro la metà campo contraria e forzare l´avversario all´errore.
Festa grande a Geislingen

Nel 1984, il pressing del Geislingen fece una illustre vittima. Nel secondo turno di Coppa di Germania, fu l´Amburgo allenato da Ernst Happel e con Felix Magath in campo, ad essere sconfitto per 2-0 (qui gli highlights della gara), in quello che è considerato uno dei più grandi risultati a sorpresa nella storia del calcio tedesco. All´epoca Groß già non era più l´allenatore del Geislingen – fu Jakob Baumann, il suo successore, a condurre in porto l´impresa – ma ovviamente moltissimi meriti di quel colpaccio erano i suoi.

Groß era diventato nel frattempo l´allenatore del Kirchheim, un club di quinta divisione, quando la Dinamo Kiev si presentò di nuovo per una delle loro solite amichevoli invernali. Stavolta però il maestro Lobanovski trovò di fronte un allievo molto ben preparato: il Kirchheim inchiodò incredibilmente i russi sull´1-1. Rangnick invece era passato al Korb, in settima divisione e mettendo in pratica quanto di teorico appreso: dopo la pausa invernale modificò l´assetto tattico passando alla difesa a 4 e alla marcatura a zona. Il Korb non perse nessuna gara da lì a fine campionato. Rangnick pensò che, se il cambiamento portava i suoi frutti a livello dilettantistico- dove i giocatori si allenavano di sera e due-tre volte a settimana - non esisteva certo nessun impedimento per riproporlo a qualsiasi livello, in special modo nei professionisti.

L´amicizia ed il rapporto professionale fra Groß e Rangnick col tempo aveva dato vita ad un turbine di idee da sviluppare, come in un laboratorio di chimica. Ma all´epoca libri o manuali non erano facili da reperire. Serviva ricercare materiale in giro per il mondo, o, in alternativa, alzare i tacchi e prendere l´auto, sobbarcandosi chilometri per spiare altri allenatori. Dall´Italia iniziarono ad arrivare numerose cassette VHS del Milan di Arrigo Sacchi: Groß e Rangnick fusero il loro videoregistratore a forza di play, pause, rewind, pause, play. Quaderno e penna in mano, i due iniziarono comprendere il funzionamento di quella perfetta macchina rossonera.
Tutti a lezione dal maestro Arrigo Sacchi
Ma Sacchi non fu l´unico allenatore della Serie A ad essere preso come esempio. Rangnick si trovava in vacanza in Sud-Tirolo quando si imbatté nel ritiro del Foggia, che Zdenek Zeman aveva appena portato dalla serie C in A. Per il tedesco fu come scoprire l´albero della cuccagna: pressing aggressivo a tutto campo e marcatura a zona. Tutto in versione estrema, naturalmente. Controllando gli allenamenti, Rangnick ne scoprì però la durezza. Ma c´era una logica. Per fare quel tipo di gioco, i calciatori dovevano essere il più forma possibile, per rendere sempre al massimo. Non servivano necessariamente campioni, ma occorreva gente disposta al sacrificio.

Groß e Rangnick non erano i soli ad essersi accorti che il calcio stava cambiando e che in alcuni paesi già queste filosofie tattiche erano ben presenti. I successi del Milan di Sacchi non erano passati certo inosservati e copie, più o meno di successo, delle idee del maestro di Fusignano iniziarono a vedersi in giro per l´Europa. Uno di questi fu Wolfgang Frank che nel 1995 che fu il primo ad introdurre tali metodi in una serie professionista tedesca, dopo aver preso in mano un traballante Mainz (in Bundesliga.2, la serie B tedesca). Il Mainz al momento dell´arrivo di Frank aveva appena un punto e zero reti realizzate dopo otto giornata ed era condannato alla retrocessione. La sua prima mossa fu quella di passare dalla marcatura ad uomo a quella a zona ed introdurre il pressing. Il cambio fu radicale ma portò i suoi frutti. Con i 32 punti ottenuti solo nel girone di ritorno, il Mainz si piazzò a centro classifica. Fra i giocatori sotto la guida di Frank, c´era anche uno spilungone biondo, che dopo aver iniziato la carriera da centravanti si era riciclato difensore centrale e che nel 2001 diventerà poi il tecnico del Mainz: Jürgen Klopp.

In silenzio, quasi timidamente, anche altre squadre iniziarono a giocare a zona, specie in luoghi tranquilli e lontani dai riflettori, come a Freiburg, Fürth, Wattenscheid e Uerdingen. Nel frattempo nel 1997, Rangnick ottenne la panchina del Ulm 1846 nella Regionalliga Süd, la terza divisione di allora. Gli Spatzen conquistarono subito una storica promozione in Bundesliga.2 e, contrariamente ai pronostici, nella successiva stagione continuarono a impressionare. Imbattuto dopo 16 giornate, l´Ulm diventò oggetto d´attrazione per i curiosi ed i giornali tedeschi non esitarono a definirla un “un’isola del calcio moderno”. Qualche critico arrivò ad osservare che la squadra Under-14 dell´Ulm sapeva giocare a zona. Al contrario della nazionale tedesca - che pochi mesi prima aveva preso un bello shampoo dalla Croazia nei quarti di finale dei Mondiali di Francia.
A fine stagione l´Ulm otterrà una storica promozione in Bundesliga, anche se Rangnick non salirà, almeno ufficialmente, sul carro dei vincitori. L´allenatore si era infatti dimesso nel marzo del 1999 e per lui si profilava già il grande salto con la panchina dello Stoccarda ad attenderlo. 


Ma nel frattempo era successo qualcosa di imprevisto. Invitato come ospite nei salotti di Sportstudio, lo storico programma trasmesso dalla ZDF, Rangnick iniziò a parlare delle proprie teorie ed idee davanti ad una lavagna. Tuttavia quell´uscita ebbe un effetto indesiderato. Fra gli addetti ai lavori più conservatori, le idee di quel giovane allenatore furono viste come un attacco alla tradizione. L´arrivo di Rangnick sulla scena sembrò quello di un occhialuto professore con tante idee, ma poca pratica. E poi la sua difesa a 4 andava ad intaccare un ruolo che nel calcio tedesco fino a quel momento era sacro ed intoccabile: quello del libero.

Frank Beckenbauer era il simbolo di quel ruolo: il giocatore che organizza la difesa e che guida l´inizio della manovra. Il cuore della squadra, insomma. Matthias Sammer era l´ultimo esponente della generazione dei liberi “alla tedesca” ed aveva vinto l´Europeo ed il Pallone d´Oro nel 1996. Ed in quei anni anche Lothar Matthäus aveva arretrato il proprio raggio d´azione, alternando la posizione di mediano davanti alla difesa con quella di libero. A livello di nazionale era vero che il Mondiale di Francia era stato una delusione, ma i tedeschi avevano vinto l´Europeo due anni prima e la Champions League (con il Borussia Dortmund) nel 1997. Il Bayern Monaco sarebbe poi arrivato in finale nel 1999. Perché cambiare, quindi?

Spesso le vittorie, o quantomeno i risultati positivi, alterano la realtà. Ad inizio del secolo, in Europa nessuno giocava più con il libero, ed il 4-4-2 in voga negli anni 90 stava lasciando piano piano spazio ai flessibili 4-3-3 o 4-2-3-1. Unica costante la difesa a 4. Tuttavia in Germania il muro di indifferenza verso il nuovo era duro da buttar giù. Il fiasco dell´Europeo del 2000 era stato compensato dal secondo posto del Mondiale 2002 anche se la nazionale di Rudi Völler era tutto tranne che bella a vedersi. Tremendamente aggrappati alla solidità di Ballack, ai gol di Klose ed alle parate di Kahn, i tedeschi sfruttarono la cadute in serie di nazionali illustri e raggiusero la finale solo dopo tre striminzite vittorie per 1-0 contro Paraguay (ottavi), Usa (quarti) e Korea del Sud (semifinali).

Balakov vs Rangnick: uno scarso feeling che
 il tecnico pagò con l´esonero
Nel frattempo la storia d´amore fra Rangnick e lo Stoccarda si era conclusa dopo una stagione e mezzo per mancanza di risultati. Gli scettici ed i conservatori sembravano avere avuto di nuovo ragione, e Rangnick pagò pure l´assenza di feeling con Balakov, un “dieci” eccellente tecnicamente, ma veramente poco avvezzo alla corsa. Il bulgaro era l´idolo del momento ma si muoveva il minimo indispensabile con la palla, figuriamoci in fase di non possesso. Balakov litigò con Rangnick e fu messo fuori rosa per una gara, ma anziché rafforzare la posizione del tecnico quel litigio mise la parola fine alla sua avventura alla guida dello Stoccarda.

Ma il manager svevo, comunque, trovò presto un´altra cavallo da cavalcare. Rangnick prese in mano l´Hannover 96, un club che era sprofondato nell´anonimato e da oltre dieci anni non figurava ai vertici dei campionati tedeschi. Prima stagione: promozione in Bundesliga. Seconda: salvezza, grazie all´undicesimo posto. Terza: esonerato a Marzo dopo divergenze con il club.
Proprio la minuziosità, l´attenzione al dettaglio facevano di Rangnick un manager troppo pignolo, nel campo e fuori, e la sua figura andava irrimediabilmente a cozzare, o prima o dopo, oltre che con le eventuali star della rosa, anche con i vari dirigenti, direttori o presidenti dei club nei quali allenava. Per questi motivi pure l´avventura con Schalke 04, la sua terza squadra allenata da lui in Bundesliga, terminò anzitempo. Dopo il secondo posto nella stagione 2004-05, lo Schalke 04 ebbe alcune difficoltà di troppo ed i metodi di Rangnick furono di nuovo questionati da parte della dirigenza. Nel dicembre 2005, dopo che lo Schalke 04 aveva battuto il Mainz, Rangnick celebrò con un giro d´onore alla Veltins-Arena e il pubblico gli riservò una vera e propria ovazione. Il club, ed alcuni giocatori, si sentirono provocati e due giorni dopo gli venne dato il benservito. Ancora una volta i suoi detrattori saltarono fuori ad obbiettare. Ma onestamente, in molti, anche i meno scettici, iniziarono a pensare che Rangnick ed i suoi metodi non fossore tagliati per la Bundesliga.

Bierhoff, Löw e Klinsmann ai Mondiali del 2006
Ma qualcosa era veramente cambiato nel calcio tedesco. L´arrivo di Jürgen Klinsmann sulla panchina della nazionale rappresentò un bivio: seguire per la vecchia strada o svoltare. Klinsmann, come Rangnick, sperimentò sulla propria pelle la sensazione di sentirsi dire di “essere un incapace” e “uno bravo solo a chiacchere”, ma l´ex centravanti di Inter e Bayern Monaco se ne infischiò dell´opinione pubblica. Forse aveva le spalle più grandi per reggere le solite subdole polemiche e magari sapeva che per avere successo doveva continuare a professare le proprie idee fino alla fine ed affondare con esse, nel caso si sarebbero rilevate errate. Klinsmann sapeva che l´eventuale prezzo da pagare sarebbe stato alto e che il fallimento avrebbe significato la fine della propria carriera di allenatore. L´altra faccia della medaglia era che, in caso di esito positivo, il successo sarebbe stato enorme. Valeva la pena rischiare. Assieme al suo assistente Joachim Löw e soprattutto il team manager Oliver Bierhoff, Klinsmann iniziò a lavorare nell´ombra e cambiò per sempre le sorti di una nazione, anche se per stappare lo champagne occorrerà aspettare fino al 2014, anno in cui però solo Löw e Bierhoff avranno la fortuna di sollevare la Coppa del Mondo nel cielo di Rio di Janeiro.

Ma non c´era solo Klinsmann. Vi ricordate del Mainz di Frank? E del suo successore? Si proprio lui. Klopp aveva preso in mano la squadra nel 2001 e dopo due tentativi, alla terza stagione aveva conquistato la promozione in Bundesliga. L´allenatore - soprannominato Harry Potter per gli occhialetti ed la pettinatura da apprendista stregone – aveva appreso bene le lezioni tattiche di Frank e Rangnick e ci aveva aggiunto un po’ del suo, ovvero l´innata capacità di inculcare uno “spirito guerriero” ai propri giocatori - che con lui sembravano correre il doppio  - ed un carattere aperto e gioviale con cui aveva conquistato i tifosi. Klopp condusse il Mainz a due salvezze consecutive, prima di retrocedere al termine della stagione 2006-07.

Contrariamente a quello che in molti pensano, non furono i buoni risultati sportivi ottenuti  a dare la fama a Klopp, bensì un ruolo da commentatore durante la Conferation Cup del 2005. Fu negli studi della ZDF che Klopp si fece conoscere alla Germania intera, entrando dentro i salotti di ogni famiglia. Gli stessi studi televisivi dove la reputazione di Rangnick aveva subito un grosso danno qualche anno prima.

Affiancato all´ex arbitro svizzero Urs Meier ed al grande Beckenbauer, la presenza di Klopp fu una rivelazione ed un successo istantaneo: l´esperimento si ripeté anche durante i Mondiali del 2006 e gli Europei del 2008. Incaricato di spiegare gli aspetti tattici delle gare, Klopp si diresse al pubblico in maniera dettagliata ma al tempo stesso semplice, come se stesse parlando con un amico al bar. Ma Klopp non era solo lì per intrattenere il pubblico: le sue analisi erano esaustive sotto ogni punto di vista. Il ragazzo sapeva il fatto suo ed anche Beckenbauer se ne accorse. Mentre Klopp mostrava il mancato movimento a scalare di un terzino o un centrocampista fuori posizione, Kaiser Franz osservava soddisfatto e spesso faceva cenno di sì con la testa. Quindi, se anche Beckenbauer approvava…

Nel 2008, dopo aver tentato, fallendo, di riportare il Mainz in Bundesliga, Klopp decise che era il momento di una nuova avventura e si dimise: 20000 tifosi lo salutarono alla sua festa d´addio. Amburgo, Bayer Leverkusen e persino il Bayern di Monaco – che alla fine scelse Klinsmann – mostrarono il proprio interesse per quel giovane allenatore, ma alla fine fu il Borussia Dortmund ad ingaggiarlo.

Mentre Klopp iniziava a farsi conoscere, almeno a livello nazionale, Rangnick si era imbarcato in un'altra esotica avventura. L´Hoffenheim era un club di ottava divisione prima che il miliardario Dietmar Hopp – fondatore della ditta di software SAP - ne diventasse il proprietario e nel 2006 aveva già raggiunto la terza serie. Fu allora che entrò in scena il tecnico.

Rangnick si trovò in un ambiente vergine dal punto di vista calcistico, ideale per un tipo come lui. Chiese uno psicologo e loro lo assunsero. Consigliò di costruire una Academy per il settore giovanile – basata su quella d´Arsenal – e lo fecero. Suggerì un nuovo stadio ed ben presto arrivò la Rhein-Neckar Arena. La squadra era un misto di stranieri pescati in qua e là e sconosciuti tedeschi con due caratteristiche ben precise: giovani e scattanti. Il calcio a “tutto gas” proposto da Rangnick sbancò di nuovo e l´Hoffenheim si ritrovò presto in Bundesliga. Ma il club sembrava non fermarsi più: nel dicembre del 2008, l´Hoffenheim girò il girone d´andata in testa alla classifica, laureandosi Herbstmeister (campioni d´autunno). Tra le vittime anche il BVB di Klopp, sconfitto per 4-1.
Demba Ba, Carlos Eduardo e Vedad Ibisevic
 ai tempi dell´Hoffenheim

Il fenomeno Hoffenheim fece il giro del mondo ed il New York Times venne a visitare quel piccolo paese del Baden-Württemberg per scoprirne i segreti. La squadra fece vedere che nulla era impossibile e non servivano certo campioni per vincere e giocare bene. I loro successi erano frutto della collettività, del gruppo, del gioco di squadra e dietro a tutto questo c´era Rangnick il cui lavoro fu finalmente riconosciuto in tutta la Germania e non solo. L´allenatore svevo fece il suo ritorno trionfale negli studi della ZDF come ospite di Sportstudio e stavolta non ci fu nessuno che mise in dubbio le sue teorie.

Tuttavia, il girono di ritorno dell´Hoffenheim fu alquanto deludente e la squadra terminò settima. Oggettivamente fu un risultato incredibile, ma dopo il girone d´andata, forse qualcuno si aspettava di piú. Il calcio praticato da Rangnick richiedeva un grande dispendio di energie e i giocatori dovevano essere sempre al top della forma per rendere al massimo. Qualcuno, montandosi un po’ la testa, aveva probabilmente rallentato il ritmo, mentre altri, più semplicemente, non erano stati in grado di reggere lo sforzo fisico. I risultati risentirono del calo e le prestazioni tornarono ad essere “normali”.

Hoffenheim giunse undicesimo nella stagione 2009-10 ma nella stagione successiva Rangnick si dimise dopo divergenze con Hopp: il manager spingeva per spendere ancora e puntare al titolo, mentre il presidente aveva intenzioni opposte, ovvero cercare una via per stabilizzarsi in Bundesliga e salvaguardare il futuro investendo sui giovani. La vendita di Luis Gustavo fu la goccia che fece traboccare il vaso e Rangnick se ne andò, anche se non tardò molto a trovare un'altra panchina.

Meno di tre mesi dopo, ecco di nuovo lo Schalke 04 a bussare alla sua porta. Rangnick tornò alla Veltins-Arena e nello spazio di poche settimane riuscì a conquistare la semifinale di Champions League - dopo aver umiliato i campioni uscenti dell´Inter, battendoli 5-2 a Milano – e la la Coppa di Germania, che ad oggi rimane il suo unico trofeo. Ma i risultati ottenuti da Rangnick ad Gelsenkirchen furono però offuscati completamente dall´ascesa di una altro personaggio nell´olimpo del calcio tedesco.

In meno di tre stagioni, dopo un paio di annate difficile, con a disposizione un budget irrisorio, e con un gruppo di giocatori poco conosciuti, Klopp era riuscito a costruire una squadra capace di vincere la Bundesliga con 7 punti di vantaggio sul Bayer Leverkusen e ben 10 sul Bayern di Monaco. E nella successiva stagione si era ripetuto ancora, conquistando anche la Coppa di Germania, battendo il Bayern 5-2 nella finale di Berlino. Il grande slam era stato mancato per poco, vista la sconfitta nella finale di Champions League del 2013, ma Klopp era diventato il personaggio del momento: simpatico, cool, sempre con l´aria da guascone, il biondo allenatore era un modello da imitare in tutto e per tutto. Passionale, vibrante e grande comunicatore, Klopp era capace di ottenere il massimo dai suoi giocatori che sul campo erano disposti a correre come matti in uno stile di gioco che venne battezzato come Gegenpressing.

Ma cosa è realmente il Gegenpressing? Il Gegenpressing è la pressione sistematica che una squadra effettua contro i propri rivali. Ma nel 2010, non rappresentava certo una novità nel mondo del calcio. Il pressing sistematico era alla base di tante filosofie calcistiche, da Sacchi a Zeman fino a Marcelo Bielsa. Era anche una delle caratteristiche del Barcellona di Pep Guardiola che non appena persa palla attaccava per riconquistarla il prima possibile, sfiancando poi gli avversari con l´incessante possesso palla, alias tiki-taka.

Anche Klopp basava il proprio lavoro su questi principi ma l´esecuzione quasi maniacale fu una novità in Bundesliga. Una volta persa palla, l´obbiettivo era  quello di riconquistarla immediatamente e puntare direttamente alla porta il più rapidamente possibile, sfruttando il fatto che l´avversario doveva ancora riposizionarsi correttamente. Bloccare la ripartenza avversaria, causandola una a favore. Statisticamente, il BVB di Klopp aveva pochi corner a favore, segno che i giocatori cercavano sempre di finalizzare la giocata, canalizzandola verso il centro, con una conclusione, invece di aprire il gioco sulle fasce e crossare. 
Se gli avversari iniziavano l´azione invece, il Borussia Dortmund gli dava la possibilità di avanzare in maniera tranquilla, attirandoli in una trappola. Ma il pressing doveva essere eseguito in maniera coordinata: di solito i giocatori del BVB identificavano un anello debole nella squadra avversaria e come uno sciame di vespe si avventavano non appena avesse la palla. 

Il lavoro svolto da Klopp aprì più di una breccia nel calcio tedesco costringendo molte squadre a rivedere il proprio approccio. Il Bayern di Monaco per esempio si accorse che la leziosità del calcio fraseggiato proposto da Louis van Gaal non aveva futuro, almeno in Bundesliga. Quando Jupp Heynckes arrivò alla guida ci fu una sterzata verso il Gegenpressing, e fu proprio questa l´arma usata dai bavaresi per vincere il triplete (Champions, Campionato e Coppa di Germania) nel 2013. 
Pep Guardiola

Nella sua prima stagione a Monaco, Guardiola commentò il fatto che una qualsiasi squadra tedesca era in grado di effettuare un contropiede in meno di 11 secondi. «Esta liga es bestial en materia de contraataques. Es la “Contra-Bundesliga”  - dichiarò l´allenatore catalano nel libro Herr Pep – en ningún lugar como en Alemania hay tantos equipos tan eficaces al contraataque y tan rápidos.» Uno dei primi aspetti che Guardiola affrontò in Germania fu proprio quello di evitare che il Bayern cadesse vittima di questo tipo di contropiedi (vedi la sconfitta casalinga 0-3 per mano del BVB di Klopp nella sua prima stagione) ed ha affinato fin qui un sistema di gioco per ridurre tale problema che ha portato il Bayern a diventare oggi una macchina (quasi) perfetta sia in attacco che in difesa.

Ma il Gegenpressing, oltre a richiedere un enorme dispendio di energie, non è certo un sistema infallibile. Lo stesso BVB nel tempo si era leggermente evoluto, aumentando la percentuale di possesso palla ed elaborando un gioco più articolato, fino però a perdere il proprio smalto e finire settimo nella stagione 2014-15. 

Tuttavia, la modernizzazione del calcio tedesco ha cambiato la concezione del ruolo dell´allenatore. Non più un privilegio per ex-calciatori, ma una professione che poteva essere imparata, affinata e perfezionata sul campo, giorno dopo giorno. Negli ultimi anni numerose facce nuove si sono affacciate in Bundesliga – incluso Guardiola – e le squadre sono tutte costruite basandole sul Gegenpressing: rose giovani, ma allo stesso tempo di qualità, in grado di reggere gli alti ritmi ed il livello tecnico richiesti. E questo spiega anche la facilità con cui in Germania vengono sfornati talenti anno dopo anno con un ricambio quasi naturale. Il presunto campione dal piede magico che però passeggia in campo non è più tollerato. Ma allo stesso tempo nemmeno i corridori dalla scarsa tecnica sono ben accetti. Oggi giorno un giocatore deve saper offrire conoscenze tattiche, livello atletico e tecnica sopraffina. E nei settori giovanili si lavora per far si che i ragazzini abbiano tutte le carte in regola per diventare calciatori. Qualche eccezione viene fatta per il ruolo di difensore centrale, dove la fisicità è ancora importante, ma in generale se un giovane è scarso in uno dei tre requisiti fondamentali, difficilmente potrà fare carriera. 

Nel frattempo molti discepoli di Rangnick (attualmente allenatore della RB Lipsia), Groß e Klopp (ingaggiato lo scorso Ottobre dal Liverpool) hanno iniziato a diffondersi a macchia d´olio in terra tedesca.

Roger Schmidt aveva lavorato con Rangnick e Groß alla Red Bull di Salisburgo prima di diventare il tecnico del Bayer Leverkusen; Tayfun Korkut, lo scorso anno sulla panchina dell´Hannover, era stato allenatore delle giovanili dell´Hoffenheim ai tempi di Rangnick; Markus Gisdol, fino a qualche settimana fa alla guida dell´Hoffenheim, aveva addirittura giocato con il Geislingen negli anni 80; Thomas Tuchel, attuale tecnico del BVB, oltre ad aver allenato il Mainz nel dopo-Klopp, era stato giocatore dell´Ulm con Rangnick ed allenatore dell´Under-19 dello Stoccarda quando Rangnick era alla guida della prima squadra e Groß incaricato di sovraintendere il settore giovanile; anche Klinsmann mosse i primi passi calcistici nel Geislingen e nello Stoccarda; e Klopp, Rangnick, Groß, Klinsmann e Löw sono tutti nativi del Baden-Württemberg, la regione a sud-ovest della Germania. Semplici coincidenze? Forse no…
Fonti Info: 
Herr Pep by Marti Perarnau

mercoledì 18 novembre 2015

Inchiesta Calcio Giovanile: l´Importanza dei Vivai


Nel 2001, un sedicenne attaccante portoghese, militante con lo Sporting Lisbona, fu raccomandato all´Inter. L´ex-giocatore nerazzurro Luis Suarez, da sempre in collaborazione con il club, si diresse allora nella capitale portoghese per vederlo all´opera. Ma nonostante il parere positivo ed il costo relativamente basso dell´operazione - stimato attorno ai 2 Milioni di Euro - il presidente Massimo Moratti bocciò la trattativa alludendo al fatto che era sua intenzione comprare un “prodotto finito” anziché un teenager. Quel giocatore si chiamava Cristiano Ronaldo. (Fonte: Cristiano Ronaldo: The biography di Guillem Balague)
Esistono varie maniera di fare scouting nel mercato giovanile. Chi cerca, come fece Moratti, il “prodotto finito”, quel giocatore con già alle spalle sufficienti minuti per essere considerato pronto per la prima squadra, chi invece ha strutturato una vasta rete di osservatori in grado di setacciare a fondo alcune precise zone - vedi l´Udinese col Sudamerica - e, nonostante i noti rischi del “comprare a stock”, riesce quasi sempre a compiere veri e propri affari low-cost.
Altre società invece preferiscono agire in maniera ibrida: il rischio sembrerebbe sulla carta minore, a meno che l´agente - in teoria di fiducia - ti rifili il “pacco” dopo averti incantato con referenze gonfiate ed esplosivi filmati di presentazione, buoni forse per Youtube ma poco utili quando la parola spetta al campo.
Ci sarebbe inoltre una quarta maniera di fare calcio ed è forse quella più semplice: coltivare i talenti in casa, facendoli crescere con gli ideali e i valori del club e poi lanciarli in prima squadra al momento opportuno. Non tutte le squadre ci riescono però. Molte sembrano disinteressate da quello che succede nelle giovanili e considerano il vivaio come una palla al piede. Altre invece sbandierano al vento i campionati giovanili vinti, ma quando poi si tratta di dare fiducia a quei promettenti ragazzini le porte, come per magia, si chiudono. A volte a doppia mandata.

Ovviamente vi sono due facce della medaglia: non tutte le piazze sono in grado di assimilare l´introduzione in prima squadra di giovani e spesso anche l´opinione pubblica gioca un fattore negativo. Un tifoso infatti, illuso che la propria squadra trovi il nuovo Maldini o il nuovo Messi, preferisce l´arrivo di uno sconosciuto straniero piuttosto che la promozione di un primavera. E nemmeno la stampa, pronta a etichettare con troppa fretta giovani promesse come fenomeni, non aiuta di certo.
Ma quanto conta realmente un vivaio? Una risposta interessante ce la dà il CIES (Centre for Sports Studies) che ha recentemente analizzato 31 campionati europei, ottenendo dati importanti sul rapporto fra settori giovanili e prime squadre.

Uno dei dati di maggior spicco è quello che vede l´Italia al penultimo posto per giocatori impiegati nel campionato di Serie A che provengono dai settori giovanili italiani: solo l´8,6%. Spagna (23,7%) e Francia (19,4%) sono anni luce davanti alla Serie A, mentre in Europa è il bielorusso il campionato in testa a questo tipo di statistica (ben 34%).
Ma è così difficile lanciare giovani in prima squadra? E quali sono gli ostacoli principali? Certamente molto dipende dal tipo di campionato e dai singoli obbiettivi di una società. Ricorrere a teenager quando ti stai giocando una salvezza o un titolo è ben più difficile che quando una squadra naviga stabilmente a metà classifica. E un campionato polacco o bielorusso non può essere nemmeno paragonato alla Premier League o alla Liga spagnola. Inoltre, avere o meno soldi per muoversi sul mercato è un altro fatto determinante. Se puoi spendere e comprare l´ingranaggio che manca, non ricorrerai mai al ragazzino.
Però il problema potrebbe stare a monte. Spesso manca la volontà a livello societario e le incertezze che regnano all´interno di un club si ripercuotono in scelte di questo tipo:  molte volte l´opzione più facile è quella di non rischiare, e così i giovani vengono lasciati in naftalina.

Dei 5 campionati principali (inglese, tedesco, francese, spagnolo ed italiano) solo due squadre hanno almeno la metà degli uomini in rosa provenienti dal proprio settore giovanile: il Las Palmas (50%) e l´Athletic Bilbao (63%) mentre i bielorussi del Gomel hanno quasi tutta la rosa (92%) prodotta in casa propria. Tuttavia, la scelta del club non ha dato i frutti sperati: il Gomel è infatti appena retrocesso.
Viceversa, non è matematico che un club che non lanci giovani sia destinato a far meglio di chi lo fa. Fra le squadre che non possiedono in rosa nessun elemento cresciuto nel proprio vivaio vi sono infatti Carpi ed Hellas Verona, che attualmente occupano l´ultimo ed il penultimo posto della Serie A. Anche il Granada ed il Tondela sono ultimi in graduatoria, rispettivamente in Spagna e Portogallo, mentre l´KV Oostende inverte completamente la tendenza: i belgi sono momentaneamente al primo posto della Pro League.

Difficile quindi stabilire che la presenza o meno di giovani del proprio settore giovanile incida in maniera fissa sulle sorti di una squadra. A volte poi deriva dalla qualità degli stessi. Vi sono settori giovanili che producono talenti quasi in serie, ed altri che riescono ad avere giocatori degni di nota ogni 3-4 anni. Ma la produzione, oltre ovviamente al bacino d´utenza e alla fortuna di avere fra le proprie file il “fenomeno di turno”, dipende molto dalla di chi gestisce ed allena quei ragazzini. Un settore giovanile non si improvvisa dal giorno alla notte.
Per diventare calciatori professionisti non basta essere dotati solamente di talento naturale, ma occorre che il processo di crescita tecnica, tattica e di maturazione, venga seguito da persone competenti e preparate sotto ogni aspetto che riescano a dare al ragazzino tutti gli strumenti necessari a migliorare giorno dopo giorno. In campo e fuori.

Per far questo ovviamente servono le strutture ed il personale idoneo ed è altrettanto importante che il club riesca a trasmettere ai ragazzini i propri valori. Non è un caso che nella Masia – la famosa Academy del Barcellona-  siano cresciuti ben 44 calciatori militanti nei 5 campionati principali. Il club catalano è da sempre il top per la formazione di giovani talenti ed uno dei fattori che incide maggiormente è una certa stabilità tecnica. Indipendentemente da chi sia l´allenatore della prima squadra la filosofia imposta nella cantera blaugrana rimane sempre quella - il famoso 4-3-3 ed il gioco “all´olandese” le cui radici risalgono all´epoca di Johan Cruyff - e ciò ha dato al settore giovanile catalano un´identità ben precisa.
C´è poi il caso dell´Athletic Bilbao, che oltre a covare talenti rappresenta una istituzione delle tradizioni basche – anche se quelli della Real Sociedad la pensano diversamente, ma questa è un´altra storia -  ed il fatto che ammetta solo giocatori locali riduce il bacino di utenza ma aumenta le proporzioni dei risultati raggiunti nella storia del club.
Ma il Barcellona non è l´unico club di prima fascia a lavorare bene. Tanti hanno settori giovanili all´avanguardia, anche se poi molti club, grazie alla generosa disponibilità economica, preferiscono comprare “il prodotto finito”: vedi PSG o Bayern München per esempio.
Nella top 20 vi sono anche due squadre italiane, l´Inter e l´Atalanta. Ma dei 20 giocatori cresciuti nel vivaio milanese solo due sono ancora in rosa, mentre 18 stanno tentando la fortuna altrove. Questo non significa che ad Appiano Gentile non si producano buoni giocatori, semmai la recente instabilità tecnica (7 allenatori cambiati dal 2010) e societaria hanno fatto sì che ogni stagione si ripartisse da zero o quasi.

La stessa cosa andrebbe detta del Chelsea, anche se la squadra londinese non figura in nessuna lista. I blues hanno vinto 4 delle ultime 6 FA Youth Cup (ed in una occasione sono stati sconfitti in finale) e nel 2015 hanno conquistato anche la UEFA Youth Cup. Senza ombra di dubbio quello del Chelsea è il settore giovanile migliore d´Inghilterra ed uno dei migliori a livello europeo, ma quanti di quei ragazzi sono poi saliti in prima squadra? Il fatto che John Terry sia l´ultimo elemento uscito dalle giovanili ad aver trovato impiego fisso in prima squadra la dice lunga sulle difficoltà a cui vanno incontro una volta completata la trafila nelle giovanili.
Delle ultime covate, attualmente solo Ruben Loftus-Cheek è stato aggregato alla corte di José Mourinho – appena 63 minuti giocati per lui in questa stagione – mentre tutti gli altri già venduti o in prestito in squadre satelliti, di solito al Vitesse o in serie minori inglesi. In attesa probabilmente di essere liquidati per sempre o usati come contropartita tecnica in operazioni di mercato.
Ma dietro a queste mosse potrebbe essere nascosta una precisa scelta societaria: comprare una giovane promessa (generalmente a basso costo) e lasciarla crescere fra Academy e prestiti vari genera un aumento del valore di mercato dello stesso giocatore. E permette soprattutto al club di intascare buone somme: dalla sola compravendita di Romelu Lukaku, Kevin de Bruyne e Thorgan Hazard il Chelsea ha ricavato ben oltre £26m. Quella che in teoria dovrebbe essere la base per il futuro, in realtà sembra essere puro business.

Anche analizzando i singoli giocatori lanciati in prima squadra questa stagione, i dati sono soggetti a diversi angoli di interpretazione. Dei tre militanti in Serie A solo il senagalese dell´Empoli Assane Diousse (arrivato in Italia nel 2010) può definirsi prodotto locale mentre sia Oliver Ntcham (Genoa) che Pedro Pereira (Samp) sono cresciuti altrove. Il primo, in prestito dal Manchester City,  in Francia, mentre il secondo con il Benfica. Il "parodosso italiano" é che Mario Piccinocchi, milanese e cresciuto nel Milan, é in testa alla classifica per minuti giocati: il giovane centrocampista in estate è stato venduto al Vicenza che poi lo ha girato in Svizzera, dove sta ottenendo la chance di giocare titolare alla corte di Zdenek Zeman.
In generale, statistiche a parte, sono le politiche societarie ed la propensione dell´allenatore ad incidere molto sul lancio di giovani. Non tutti hanno il coraggio di sbolognare Ronaldinho e Deco (e mettere in panchina allo stesso tempo Thierry Henry e Yaya Toure) per far giocare gli sconosciuti Pedro e Sergi Busquet, o di lasciar partire un Patrick Viera al top della carriera per rimpiazzarlo con il teenager Cesc Fabregas. E non tutti sono capaci di vincere una Champions League, battendo il Milan di Fabio Capello, con una rosa di elementi - dei quali molti nemmeno ventenni - cresciuti quasi tutti nel proprio vivaio, come fece Louis van Gaal con l´Ajax a metà anni 90. Difficile che succeda ancora, ed ancor più improbabile, visti i numeri ed il trend negativo, che accada con una squadra italiana.